THE ELECTRONIC CORNER

Stephen Paul Taylor

L'autoproclamato Re del Synth-pop Dice la Sua

Stephen Paul Taylor dice:

Avevamo finito un album molto velocemente e non avevo grandi progetti

Molte persone hanno sviluppato una dipendenza durante la pandemia

Ballo molto e mi piego molto

Ci sono tantissimi plug-in gratuiti che mi fanno impazzire

Stephen Paul Taylor conosce il significato della parola “successo”. Uno dei suoi video ha ottenuto più di 10 milioni di visualizzazioni, si è esibito nel talent show tedesco “Das Supertalent” e ora sta lavorando a un doppio album con musicisti che solitamente collaborano con Kate Bush e Jamiroquai.
Conosciamolo meglio in questa intervista per The Electronic Corner.

Sir Joe: Sei passato dal suonare la tua canzone EKSF per le strade di Berlino a esibirti nel talent show tedesco “Das Supertalent” e ora, per il tuo prossimo doppio album, stai collaborando con musicisti come il batterista Preston Heyman e il bassista Derrick Mcintyre.
Come è potuto accadere tutto questo, al di là del tuo talento che ovviamente ha giocato un ruolo importante?

Stephen Paul Taylor: È stata una sorta di felice coincidenza il modo in cui tutto è accaduto. Volendo essere molto spirituali, si potrebbe dire che l’universo mi è venuto incontro, o qualcosa del genere.
Quando il tutto è successo, ero a un punto in cui avevo abbassato la testa e stavo lavorando come un matto. Suonavo il più possibile, scrivevo quante più canzoni possibile e un mio amico era venuto a registrare il mio album in modo molto semplice. Avevo registrato i brani come li facevo per strada, senza fronzoli.
Avevamo finito un album molto velocemente e non avevo grandi progetti. Non l’avevo pubblicato su Spotify, non so nemmeno se Spotify esistesse 10 anni fa. È stata solo una felice coincidenza, credo, quando sono stato filmato e il video è diventato virale.

SJ: Quindi una cosa ha tirato l’altra, in pratica.

 

SPT: Sì, e tutto è nato in un momento buio, perché venivo da una rottura sentimentale, e mi stavo davvero male.
Una delle poche cose che mi rendevano felice era uscire e suonare, perché quando suonavo non provavo più quelle brutte sensazioni. La depressione era sparita, la tristezza era sparita, mi sentivo davvero bene. È incredibile, come una droga magica, credo.

SJ: Se tu sei il “re mondiale del synth-pop”, come ti definisci sulla tua pagina Facebook, ma “il synth-pop è morto”, almeno in base al titolo del tuo album del 2020… che fine ha fatto il re?

SPT: In realtà è una frase ironica, e nasce da un video sul canale YouTube WatchMojo nel quale avevano elencato i 10 generi musicali che secondo loro sono morti.
C’erano il dubstep e altri, tra cui il synth-pop, e io ho pensato: “Cosa? Dicono che il synth-pop è morto, ma io dico a tutti di fare synth-pop”.
Così ho pensato che sarebbe stato un titolo divertente e credo di essere ancora il re del synth-pop. (ride)

SJ: Considerando che due “fan” di Madonna hanno fatto causa all’artista perché si è presentata in ritardo sul palco di un concerto a cui stavano partecipando e dovevano alzarsi presto la mattina dopo, pensi che nel rapporto tra artista e fan ci sia ancora spazio per l’ironia e l’esagerazione, che tu usi di tanto in tanto in nome del divertimento, o stiamo andando verso una forma di rapporto cliente/fornitore?

 

SPT: È una domanda interessante, ma non conosco la risposta. Mi sembra che stia accadendo da un po’ di tempo, che certa gente si comporti in modo un po’ ridicolo.
Ricordo che Axl Rose aveva suonato a Vancouver ed era molto in ritardo, forse due ore, e la gente aveva dato di matto. Avevano iniziato una rivolta, lanciando oggetti. Ed è successo tipo 25 o 30 anni fa.
Non è esattamente come fare causa, ma è sicuramente una reazione eccessiva e forse si può considerare una questione di domanda e offerta.
Credo che si possa solo aspettare e vedere se questo genere di cose continuerà o meno. Viviamo sicuramente in un’epoca di diritti. Credo che sempre più persone si sentano in diritto di avere certe cose o di essere trattate in un certo modo.

SJ: Di solito sei puntuale sul palco o ti piace farti aspettare?

SPT: Beh, a Berlino succede che dovresti iniziare un concerto alle 22:00, ma poi non inizierà prima delle 23:00, ad esempio, o delle 24:00. Tante volte mi è stato chiesto di suonare a una certa ora e poi ho finito per suonare comunque più tardi.
Se mi chiedono a che ora suono, rispondo semplicemente “Non lo so. Non sono io a decidere”, ma cerco di non arrivare in ritardo.
Di solito, per i sound check, posso arrivare con 15 minuti di ritardo, ma di solito sono abbastanza puntuale.
 

SJ: Quando pensi alla tastiera Casio che hai usato per scrivere la tua prima canzone quando avevi 14 anni, che tipo di sensazioni provi?

SPT: Ad essere sincero, non ricordo quella tastiera. Ricordo l’esperienza, il ritmo e l’accompagnamento che ne derivava. Ma non riesco a ricordare com’era o che modello era.
Ricordo però dove mi trovavo. Ero seduto in corridoio a casa di mio zio, ricordo molto chiaramente quel momento, ma per qualche motivo non ricordo la tastiera Casio vera e propria. Era solo un mezzo per realizzare la canzone.

SJ: Dalla tua prima canzone all’ultima (per ora): “Kicking the Habit”, pubblicata di recente, tratta di una dipendenza che hai sviluppato durante la pandemia. Puoi spiegarci meglio questo argomento?

SPT: Avevo iniziato a prendere la ketamina. In realtà l’avevo assunta per la prima volta anni fa e mi ero chiesto: “Che cos’è?” In un certo senso era un po’ come l’LSD.
È un anestetico dissociativo e gli effetti mi erano piaciuti molto, ma all’epoca non avevo sviluppato alcun tipo di dipendenza.
Quando è iniziata la pandemia, però, mi sono trovato nella condizione di poterla prendere una volta alla settimana; credo che molte persone abbiano sviluppato una dipendenza in quel periodo. Quando si è bloccati in casa e non c’è molto da fare, è piuttosto facile cadere in una situazione del genere, credo.
Ad ogni modo, ha preso il sopravvento per qualche anno e sono arrivato al punto che se passavo un giorno senza, mi dicevo: “Wow, ce l’ho fatta per un giorno”.
Non volevo trovarmi in quella situazione e sono anche finito in ospedale, quindi ho deciso che dovevo prendermi cura di me stesso. Mi stavo spaventando. Non andava bene.

SJ: Ha influito anche sulla tua creatività?

SPT: Non in modo negativo. In realtà, durante la pandemia ho iniziato a imparare pezzi classici al pianoforte.
Non avevo mai preso lezioni di pianoforte, avevo imparato altri strumenti, ma lì ho iniziato a imparare Deboussy e tutto il resto, e mi ha fatto davvero bene, sono diventato un pianista molto più bravo.
Non ricordo se ho scritto molte canzoni, credo di aver usato quel periodo soprattutto per migliorare le mie capacità.

SJ: Se dovessi scrivere una canzone di un genere completamente diverso da quello che fai ora, quale sarebbe e perché?

SPT: Mi piace l’idea di mescolare generi diversi, quindi probabilmente cercherei di fare questo, ma istintivamente mi viene da dire folk. Sarebbe un album folk molto scarno, molto emotivo e forse non così scherzoso come tendo ad essere a volte.
Sarebbe qualcosa che fa piangere, fondamentalmente folk americano, alla Susan Vega.

SJ: Tu vivi in Germania da un po’ di tempo, ma supponiamo che tu non abbia mai lasciato il Canada. Come ti vedresti in questo momento, per quanto riguarda la tua carriera musicale?

SPT: Quando torno in Canada, mi stupisco sempre di quanto sia caro quel Paese. È giusto dire, però, che quando sei in un Paese, quello che ti pagano viene adattato in base a quanto spendi.
Credo che in Canada sostengano le arti, ma secondo me, almeno a Berlino, ci sono più opportunità.
Sono tornato a Vancouver, dove ho trascorso molto tempo, e la città è completamente cambiata rispetto a quando ci suonavo con la mia vecchia band.
Suonavamo spesso a Vancouver, ci eravamo costruiti un seguito, sentivamo una bella energia ed era un po’ più vivibile. Non costava così tanto vivere lì, ma ora è cambiata molto.
Sono andato al ‘Commercial Drive’, il posto in cui passavamo molto tempo perché è lì che c’era la movida. Tutti i caffè che frequentavo hanno chiuso ed è in atto un processo di borghesizzazione.
Quindi non so se riuscirei a fare quello che sto facendo ora in Canada. Forse a Montreal o negli Stati Uniti, magari in un posto come Austin. Dovrebbe essere un posto dove c’è più sottocultura e più comunità di supporto per gli artisti. È davvero difficile da dire.

SJ: Sempre su questo argomento, ho intervistato altre persone che vivono a Berlino e quello che hai appena detto mi ha ricordato una citazione di Neversleep, che aveva detto una cosa del tipo: “Quello che amo qui è che a nessuno interessa quello che fai. Puoi fare avant garde, puoi fare qualsiasi tipo di musica elettronica, nessuno ti giudicherà mai. C’è una libertà totale e l’opportunità di incontrare altre menti creative, quindi molte possibilità di collaborazione”.
Sei d’accordo con questa descrizione?

SPT: Sono d’accordo, ma allo stesso tempo credo che le persone tendano ad essere piuttosto individualiste. Quindi, c’è effettivamente un senso di comunità, ma c’è anche la sensazione che le persone tendano a fare i propri interessi.
Stavo parlando con una mia amica che viveva a Berlino e si è trasferita nel Regno Unito. È per metà inglese e per metà americana e mi diceva che a Liverpool, dove vive ora, si ha la sensazione di poter progradire, mentre qui non si ha necessariamente la stessa sensazione.
Penso che Berlino sia una città ideale per la creazione, per l’incubazione.
Puoi avere un progetto, lavorarci su, avere diverse idee, dedicare le tue energie a quelle idee e finalizzarle. Infatti,
ho avuto diversi musicisti di qui nelle mie registrazioni.
Tuttavia, credo che se vuoi crescere e avere una buona carriera musicale, probabilmente si lavora meglio in altri posti.

SJ: Le tue performance dal vivo sono descritte come “elettrizzanti, energiche e colorate”. Come sviluppi le idee che porti sul palco e qual è il setup più tipico?

SPT: Il mio setup dal vivo ha iniziato ad evolversi un po’. Ora ho due tastiere, una è la Roland VR-09, molto sofisticata e piuttosto costosa, l’altra è una Yamaha PSR E363, molto economica e ormai sta cadendo a pezzi.
Nell’ultimo spettacolo che ho fatto, ho anche usato Ableton Live, per rendere i ritmi più incisivi.
Poi ho diversi costumi. Faccio dei cambi di costume, ballo molto e mi piego molto. Mi piace piegarmi il più possibile. Stavo lavorando per fare la spaccata, ma purtroppo credo di essermi stirato i muscoli dei glutei, quindi mi sto prendendo una pausa.

SJ: Le cose che fai sul palco sono spontanee o le provi spesso? In altre parole, sei un pianificatore o ti affidi soprattutto all’istinto?

SPT: Mi affido all’istinto, ma ho anche molte cose che sono state sviluppate nel tempo. Per esempio, in alcune canzoni che faccio, c’è una certa teatralità. Per esempio, in un punto di una certa canzone tiro un calcio, è la stessa canzone in cui mi piego anche all’indietro.
Però vorrei passare più tempo a lavorare sullo spettacolo, in modo da fare dei movimenti ancora più precisi e cose del genere.
Rispetto molto i musicisti come Michael Jackson, perché era così meticoloso in ogni movimento da essere un mito, per me.

SJ: E il tuo studio? Sei principalmente un tipo da hardware o da software e quali prodotti usi più spesso?

SPT: Uso molto software, e ho accumulato un sacco di plug-in. Ho tutto della ‘Waves’ e ci sono tantissimi plug-in gratuiti che mi fanno impazzire, come Vital.
Mi piacciono i prodotti di Voxengo, Toybox e BABY Audio, ma la mia azienda preferita è probabilmente Symantec, hanno davvero del buon materiale.
In termini di hardware, ho un costoso microfono AKG, che ho finalmente acquistato. Ho anche un Sennheiser, che uso soprattutto quando suono dal vivo. Poi ho un’interfaccia audio Audient iD4 e, ovviamente, le tastiere Yamaha e Roland di cui ho parlato prima.
La mia DAW preferita è Ableton Live.

(Ora ti invito a guardare il seguente video, a partire dal minuto 23:02. Daremo un’occhiata allo studio di Stephen).

Ringraziamo il “Re” Stephen Paul Taylor per l’intervista e gli auguriamo il meglio.

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